Giovedì 12 Maggio si esibiranno all’Overtoom 301 di Amsterdam i Sudoku Killer, capitanati dalla contrabbassista italiana Caterina Palazzi. Ci è parsa una buona occasione per importunarla con qualche domanda sul suo ultimo album.

Caterina-Palazzi-dei-Sudoku-Killer

C: Il nostro è un ambito jazz, ma anche rock, una via di mezzo. Ho avuto un passato molto rock, ho iniziato a suonare la chitarra verso i 13 anni e per qualche anno sono ero molto appassionata anche di punk. Poi ho avuto verso i 20 anni la fase jazz e adesso mi ritrovo, volendo scrivere la mia musica, a fare un miscuglio tra tutti i generi musicali che mi hanno influenzato e che ascolto.

L: Come mai ti sei avvicinata al contrabbasso?

C: In realtà io, pur partendo da chitarrista, sono sempre stata attratta dal basso. Il  suonare la chitarra era più dovuto al fatto che non sapessi a quell’età che esistesse anche il basso.  Per me tutto quello che sentivo sotto la voce erano batterie e chitarre. Non distinguevo chitarra e basso e quindi ho iniziato la chitarra, però in realtà sono sempre stata una bassista. Quando poi ho deciso di fare il cambiamento dalla chitarra al basso ero comunque nella fase in cui ero molto appassionata di jazz, per cui ovviamente l’alter ego nel jazz del basso elettrico è il contrabbasso, quindi ho deciso di iniziare a suonarlo.

L: Che aspettative hai nei confronti di questo concerto? Hai mai suonato nei Paesi Bassi o all’Overtoom 301, dove ti esibirai?

C: No, questa è la prima volta che suono con il mio progetto in Olanda. Abbiamo fatto varie nazioni limitrofe, ma mai in Olanda, quindi sono molto curiosa di venire.

L: Secondo te perché al giorno d’oggi si ascolta ancora musica jazz?

C: Dunque, dipende sempre da cosa intendiamo per jazz, questa è una cosa importante, perché c’è ancora chi è rimasto col fatto che il jazz sia solo il jazz tradizionale, quindi una musica “morta”. “Morta” nel senso che l’hanno suonata le persone che l’hanno inventata e poi sia finita lì, come la musica classica. C’è chi invece pensa che il jazz sia un contenitore molto ampio in cui ci sono varie sfumature e che quindi sia andando continuamente avanti. Io sono più di questo parere, quindi si continua ad ascoltare il jazz, perché il jazz si sta evolvendo. Ovviamente è molto diverso rispetto alle origini, però è comunque considerabile jazz. La gente continua a suonarlo e a farlo evolvere e la gente continua ad ascoltarlo.

L: Qual è il posto dove hai sentito che ci fosse una maggiore ricezione di questo genere tra tutti i posti in cui ti sei esibita tra Italia ed estero?

C: Finché suonavamo principalmente in Italia, sentivo una maggiore ricezione nel nord Italia. Adesso che negli ultimi anni abbiamo esteso il tour in Europa, ho sentito particolare curiosità nell’Est Europa, in termini anche di Austria e Ungheria se non proprio totalmente est, e in Germania. Mi hanno colpito molto le reazioni del pubblico di fronte a una musica che non è propriamente jazz, che quindi è abbastanza contaminata, eppure c’era grande pubblicità da parte del pubblico.

L: Avete lanciato da poco un nuovo album, “Infanticide”, vuoi parlarcene?

C: Innanzitutto il titolo così apparentemente sanguinario è solo apparenza, perché in realtà l’infanticidio di cui si parla nel disco è soltanto virtuale. In particolare, descrive il momento quando muore il bambino dentro di noi, quindi da quando si smette di essere bambini al 100% e si passa alla fase dell’adolescenza, che è comunque un momento molto duro, perché si comincia a soffrire, senza sapere neanche bene il motivo. C’è un’ansia, un’angoscia esistenziale che da quel momento in poi prende e non ti lascia più. La perdita dell’innocenza, in qualche modo. […] é un disco molto oscuro, molto cupo.

L: Se potessi dare un consiglio ai giovani musicisti, cosa diresti?

C: Se fossero italiani, consiglierei proprio in questo momento storico di fare il lavoro che gli piace, perché in realtà – essendo tutti precari/poveri/disperati – è proprio il momento buono per fare un lavoro che ci piace, piuttosto che adattarci a un lavoro che non ci piace senza sicurezze, quindi è il momento giusto per vivere di quel che si vuole vivere, per quanto sia difficile.

L: Quindi il consiglio per diventare musicisti è…suonate!

C: Si, alla fine i titoli che uno vuole accumulare per sicurezza in realtà quale sicurezza danno? 

L: E dei vari musicisti con cui hai lavorato, chi è quello che ti è rimasto più impresso?

C: Anche se ho avuto la fortuna di collaborare con artisti noti del panorama jazz italiano e non solo, le persone migliori con cui penso di aver suonato sono le persone del mio gruppo. Per me il valore di suonare con un gruppo, crescere insieme è la cosa più bella ed è molto più felice rispetto a collaborare per una serata con un’artista famoso, che ti dà tantissimo con esperienza e talento elevato, ma poi la vera collaborazione felice è quella che si basa sulla quotidianità, perché la musica poi si fa insieme, si cresce insieme.

 

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