Intervista a cura di Marco Rotondo.
Laura Fontana si occupa della Shoah dal 1990, insegna in diversi seminari italiani e internazionali presso Università, Musei e Memoriali, Istituzioni pubbliche e private ed è autrice di numerosi saggi in italiano, francese e inglese. Dirige l’Attività di Educazione alla Memoria del Comune di Rimini e dal 2009 è responsabile per l’Italia del Mémorial de la Shoah. Dal 2013 è coordinatrice scientifica del Mémorial de la Shoah per il progetto internazionale EHRI European Holocaust Research Infrastructure, diretto dal NIOD di Amsterdam, che vede riunite le massime istituzioni al mondo che si occupano di ricerca sul genocidio degli ebrei. In tale veste, si occupa di seminari di formazione per ricercatori europei. Tra i suoi ambiti di ricerca: lo sport sotto il nazismo, la lingua nazista, la didattica della Shoah, le immagini e le fonti visive della Shoah e il lavoro forzato sotto il Terzo Reich. Collabora con la Revue d’histoire de la Shoah diretta da Georges Bensoussan come autrice di saggi e come membro del comitato scientifico.
Il 27 gennaio la storica ha tenuto una conferenza nell’ IIC (Istituto italiano di cultura) di Amsterdam, davanti a un folto numero di persone, italiane quanto anche e soprattutto olandesi.
Seppure l’argomento della conferenza non fosse tra i più allegri, la dottoressa ha saputo tenere viva l’attenzione degli ascoltatori per circa due ore, con una instancabile vivacità e proprietà di linguaggio, cui ha fatto da contraltare la strabiliante capacità traduttiva dell’interprete. Il tema della conferenza è stato uno solo: per conoscere la storia, comprenderla e trarne lezioni morali per il presente, lo strumento ritenuto apparentemente più efficace oggi è la visita “educativa” di gruppo agli ex campi di concentramento di Auschwitz e Birkenau. Come se sondare dal vivo gli orrori della Shoah abbia un’efficacia maggiore nella sensibilizzazione delle persone. Tutto ciò appare alla dottoressa come un enorme paradosso tra la sproporzione della centralità e la ridondanza che il ricordo di questo evento occupa nel discorso pubblico italiano e la visione selettiva ed evidentemente parziale che ne derivano nella coscienza collettiva. Il tutto veicola infatti il significato di una tragedia che sia stata in qualche modo “ereditata”, più che vissuta direttamente dall’Italia fascista, senza contare che sminuisce ancora una volta il ruolo avuto dal regime. Dal momento che nessun ebreo sotto dominio italiano fu deportato fino al 1943 si tende a dimenticare che negli anni immediatamente precedenti ci sia stata una vera e propria persecuzione giuridica e sociale degli stessi. Isolando e schedando i cittadini, il regime coltivò per anni il terreno dell’odio, rompendo i legami di solidarietà tra ebrei e non ebrei, facilitando di fatto il compito all’occupante tedesco.
Un altro stereotipo scardinato da Fontana riguarda una visione ingenua o buonista della storia nazionale secondo la quale molti ebrei vennero salvati dai fascisti. In realtà, se il numero degli ebrei sopravvissuti pare accreditare la lettura di una tragedia ritenuta minore, questo non è di certo merito delle autorità italiane e fasciste, le quali al contrario hanno applicato una persecuzione zelante. La salvezza di oltre due terzi della popolazione ebraica è per la storica frutto di gente singola e di valore, che ha agito per merito di una propria coscienza personale.
Dunque, per concludere, mentre per Laura Fontana i progressi della storiografia hanno messo in luce contesti e modalità di persecuzione diverse da regione a regione, la memoria della Shoah in Italia continua a sostanziarsi di simbologie e versioni romanzate della realtà, che non fanno altro che edulcorare una realtà che non ne ha di certo bisogno.
Al termine della conferenza abbiamo intervistato la storica per un inserto su ItalianRadio:
M: Dottoressa Fontana, durante la sua conferenza è emerso il fatto che lei non è ebrea. Cos’è quindi che la spinge a interessarsi, ancora oggi, dopo ventisette anni di attività costante, allo studio della Shoah?
L.F: Non occorre essere ebrei per interessarsi alla storia. Ho iniziato da ragazza, leggendo alcuni testi, tra cui il Diario di Anna Frank. Ma mi sono appassionata perché in questa storia ci sono delle domande che riguardano veramente l’umanità, e non in senso metafisico. Non si parla delle questioni un po’ banalizzate come la cattiveria umana, o alla tendenza della bontà dell’uomo che alla fine vince sempre. Io parlo del fatto che noi siamo figli della stessa società europea e democratica che ha ancora qualche germe nella Shoah. Se pensiamo al ruolo dei medici nazisti che hanno assassinato centinaia di migliaia di disabili adulti, tedeschi e non ebrei e che poi al processo di Norimberga e ai processi successivi non si sono mai pentiti perché hanno sposato un’idea di scienza che si basava sulla selezione di alcuni elementi ritenuti migliori di altri, questo è presente ancora in alcune tendenze della scienza moderna, che a mio avviso sono da considerarsi ancora criminali. Questo non significa amalgamare l’oggi con la situazione del nazismo, ma significa interrogare questa storia continuamente, per capire qual è stato il corto circuito che ha portato ad Auschwitz.
M: Come abbiamo visto durante la conferenza è indubbio che l’Italia sia investita come da una sorta di paradosso. Abbiamo un reverenziale rispetto verso la Giornata della Memoria, tanto da affrontarla nelle scuole a partire dalle elementari. Al contempo si tende però a sottovalutare le brutture compiute dai fascisti durante le persecuzioni. Sembra inoltre che questa giornata sia sempre più “strumentalizzata”, facendoci allontanare da quella che è stata la nostra realtà. Tutto ciò è dovuto, secondo lei, al mito degli italiani brava gente, duro a morire? Che rapporto hanno invece gli olandesi con il Giorno della Memoria? E con la Shoah in particolare?
L.F: Io mi sono riferita al paradosso di Auschwitz non solo a come viene commemorata la Giornata della Memoria in Italia, ma mi sono riferita più in generale a come l’Italia, ma anche altri Paesi dell’Europa occidentale (certamente non solo l’Italia) stanno declinando la politica della memoria. Cioè la stanno declinando su Auschwitz, che è un campo di concentramento costruito dai nazisti in Polonia, in cui sono stati deportati, come sappiamo, un gran numero di ebrei, sia polacchi che dell’Europa occidentale, ma dimenticando anche quelle che sono state le storie nazionali dei vari paesi sotto il Terzo Reich, che hanno più o meno collaborato alla persecuzione. O hanno collaborato nella fase “preparatoria”, come quella delle leggi razziali, quella dell’esclusione; oppure non hanno collaborato attivamente ma sono stati passivi, sono stati silenti, quindi hanno lasciato che questa discriminazione e questa persecuzione accadesse. Quindi credo che nel modo che noi abbiamo di ricordare ci sia una distorsione, cioè ricordiamo più un male fatto dagli altri, laggiù ad Auschwitz, tralasciando ad esempio il fatto che in realtà Auschwitz all’epoca fosse in Germania, cioè nella Polonia annessa alla Germania. C’è dunque un’idea molto confusa sul luogo, o sulle varie funzioni che ha esplicato. Per quanto riguarda l’Olanda bisognerebbe viverci per saperne qualcosa, perché non basta leggere qualche statistica sui giornali. Per quanto mi riguarda noto un grande lavoro da parte della fondazione Anne Frank, oppure dal NIOD, un istituto scientifico di storia e ricerca molto serio che nasce nel 1945. Certamente la memoria della Shoah olandese ha utilizzato la figura di Anne Frank anche in una maniera simbolica, che ha universalizzato questa storia. Universalizzare va bene nella misura in cui uno vuole trarne delle riflessioni più ampie dei fatti storici di riferimento. Ma se universalizzare invece vuol dire che diventa la tragedia di tutti, o che diventa comunque l’umanità intera, allora significa che possiamo parlare di Auschwitz come possiamo parlare di qualunque altra situazione grave ma che non è un genocidio, non è un massacro e che non ha nulla a che vedere con questa storia. Credo quindi che anche l’Olanda abbia sicuramente qualche suo paradosso da sciogliere, poi non saprei entrare esattamente nei dettagli più di così.
M: Mi sembra di aver capito che i Treni della Memoria non sono proprio funzionali per commemorare determinati avvenimenti, o no?
L.F: I Treni della Memoria hanno un successo sempre maggiore perché sono progetti che in realtà incontrano l’interesse prima di tutto da parte delle scuole, quindi da parte degli insegnanti. Devo precisare che questi treni non sono solamente il viaggio ad Auschwitz, ma i progetti comprendono una fase di preparazione, una fase di accompagnamento dei ragazzi, di rielaborazione. Io credo che il problema non siano i Treni della Memoria, in quanto molti fanno un lavoro anche serio e approfondito. Io credo che il problema sia avere utilizzato questi progetti per sostituire un insegnamento della storia, che nelle scuole è in declino. Basta parlare con qualunque insegnante per confermarlo. In declino non solo perché ci sono meno ore, ma perché si avverte la sensazione che la storia sia noiosa…Gli stessi insegnanti non rinnovano le proprie capacità narrative. Non si può parlare ai ragazzi oggi come si sarebbe parlato un secolo fa. Questo non significa nemmeno che un insegnante debba trasformarsi in un mago del computer o utilizzare necessariamente Facebook. Significa capire che la storia bisogna saperla comunicare con un linguaggio che un ragazzo di 14, 15, 18 anni può capire. Significa anche e soprattutto tener conto che viviamo in una società multiculturale, quindi gli studenti non sono più il blocco omogeneo di una volta, ma vengono da tanti Paesi. Hanno quindi delle preconoscenze diverse, con cui bisogna confrontarsi.
M: Mi ha colpito molto il fatto che lei abbia detto che nella Giornata della Memoria si tenda a sottolineare l’efferatezza degli atti commessi, senza considerare il soggetto che li ha compiuti. Perché si tende a nasconderlo?
L.F: Non è che venga omesso, in quanto ci sono molti esempi in Italia di città e istituzioni che fanno un lavoro molto serio, anche sulla parte italiana della Shoah. Però il testo di legge della Legge 2000 che ha istituito il Giorno della Memoria in Italia è il prodotto di un iter parlamentare lungo e complicato, in cui non si riusciva mai a trovare un accordo sulla questione della tragedia degli ebrei. Oppure le opposizioni volevano sempre mettere in questa legge anche le vittime del Comunismo, le vittime dei Gulag, le vittime di guerra…senza arrivare mai a una conclusione che dicesse che la Shoah è comunque un crimine di una natura diversa da quella degli altri. Il compromesso giuridico necessario per far votare questa legge è stato quello di togliere la parola fascismo. E si è risolto poi quattro anni dopo promulgando un’altra legge della memoria che ha poi istituito il giorno del ricordo. Il 10 febbraio vengono ricordate le vittime delle Foibe, un altro tipo di violenza commessa agli italiani, e che è stata dimenticata per anni. Come dire una legge della compensazione di altre vittime.
M: In Italia come in Olanda non ci sono stati campi di sterminio. L’Olanda ha avuto forse tre campi di concentramento, in cui i prigionieri venivano solo raggruppati per poi essere portati via. È corretto?
L.F.: L’Italia ha avuto un campo di sterminio che però non è stato per gli ebrei, la Risiera di San Sabba, che ha avuto varie funzioni. È stato un centro di transito, raggruppamento di ebrei rastrellati da Fiume come da tutto il litorale adriatico. I prigionieri venivano concentrati nella risiera e poi deportati ad Auschwitz. È stato però anche un campo di sterminio, compiuto per fucilazione, con punture di fenolo, ma non per ebrei. Era un campo di sterminio per prigionieri politici, per partigiani sloveni. Trieste era una zona di confine, quindi aveva il problema della Resistenza della Iugoslavia.
M: Sempre durante la conferenza ha parlato anche di campi di concentramento nel Sud-Italia, anche in Calabria…
L.F: Campo di concentramento è una definizione che dà il regime fascista. È chiaro che non assomiglia per nulla ai campi di concentramento istituiti dai nazisti. Sono dei campi di internamento, più che di concentramento. La differenza è che nei campi italiani manca l’elemento della tortura, della violenza fisica, dell’esecuzione sommaria…Quindi c’è una gradualità nella violenza che viene applicata dal Fascismo rispetto a quella che viene applicata dal Nazismo. Resta il fatto che sono di responsabilità italiana. È l’Italia che decide di internare gli ebrei col filo spinato in campi da cui non possono uscire e in cui sono privati dei diritti fondamentali. C’erano dei campi che contenevano sei, sette ebrei, quindi viene da pensare anche alla fatica che un regime fa per sorvegliare un campo, in cui ci si devono posizionare delle guardie, o un sistema di controllo per sette ebrei. Esistevano dei campi piccolissimi.
M: Mentre i campi olandesi sono di tutt’altro tipo…
L.F: L’Olanda non ha avuto questa fase di internamento prima dell’arrivo dei tedeschi. La storia è un po’diversa, nel senso che i nazisti istituiscono dei centri di transito e raggruppamento, come Westerbork e Amersfoort, in cui i prigionieri restano il tempo necessario per formare i convogli che partiranno per Mauthausen e poi Auschwitz. Nei campi di concentramento italiani gli ebrei sono rimasti anche tre, quattro anni. Non erano quindi concepiti per la deportazione. I prigionieri olandesi erano destinati ad essere deportati, mentre gli ebrei italiani non si sarebbero dovuti deportare. L’ordine di deportazione arriva con i Nazisti. La responsabilità è loro. L’Italia ha semplicemente collaborato o lasciato fare.
M: Lei crede che le ricerche porteranno alla luce nuove scoperte sulle aberrazioni compiute dai fascisti?
L.F: Le aberrazioni sono già documentate a sufficienza. Ci sono degli studi che non sono ancora stati tradotti in altre lingue, ma sono usciti da poco anche altri sull’occupazione nazista e sulla collaborazione con i fascisti nella deportazione, che hanno riscritto completamente la storia del 16 ottobre ad esempio[1], dimostrando come ci sia stato uno scenario diverso da come si pensava fino a poco tempo fa. Gli elementi per sapere li abbiamo. Bisogna innanzitutto che questa conoscenza sia recepita dai manuali che usano a scuola i ragazzi, che sono aggiornati agli anni Settanta. Ecco perché ancora non si conoscono ad esempio il campo di Fossoli o Ferramonti.
M: In Italia si sta pensando di far nascere alcuni musei?
L.F: In Italia hanno già aperto un bellissimo, nel senso di impressionante Memoriale della Shoah a Milano, al Binario 21, che era il binario sotterraneo della stazione centrale da cui partirono i convogli degli ebrei e anche dei deportati politici. Poi Ferrara ha un Museo Memoriale dell’Ebraismo e anche della Shoah, che ha aperto solo in parte. Quanto a quello di Roma, che dovrebbe essere il Museo della Shoah principale, ancora non esiste.
Per maggiori informazioni, qui trovate il sito internet di Laura Fontana: www.fontana-laura.it