“Quando dico ai miei amici che sono felice, quando mi vedono ridere, quasi non ci credono”. Parlare con Giovanni, classe 1984, è come avere una conversazione con Camilleri. Sono vicini di casa, d’altra parte, con la differenza che il mio amico – ok, stavolta sto barando perché racconterò la storia di un amico – è di Sortino, provincia di Siracusa, e i libri non li scrive, ma li legge.
Omero, Hornby, H. G. Wells, Bukowski e Calvino, per citare alcuni dei suoi autori preferiti. Ha poi ha una collezione considerevole di Nintendo e possiede una variegata conoscenza musicale. Ci incontriamo da Piccolo Amsterdam, un locale intimo, appena fuori il De Hallen. Buon vino, menu italiano a piccole porzioni e un utilizzo rigorosissimo del passato remoto fanno da contorno a una chiacchierata che, per questa uscita di Safari, racconta più una rivelazione personale che una storia professionale.
Com’è Giovanni Calvo? Lo interrogo, cercando di capire se il trasferimento in Olanda lo ha cambiato. “Non direi che mi ha cambiato. Direi, piuttosto, che mi dato modo di essere me stesso”, mi risponde mentre sorseggia uno spritz. E se a 16 anni gli avessero detto che sarebbe finito in una delle più belle capitali europee con un lavoro stabile, non ci avrebbe creduto. In Sicilia, infatti, l’incertezza del futuro il più delle volte non permette di essere pienamente felici, prosegue, e capita di non riuscire a esternare la propria natura.
Il retroscena è noto più o meno a tutti: giovane laureato in giurisprudenza, con ottimi voti, che dopo sette anni di vita universitaria nella ridente città di Catania, torna al suo paese con un’enorme insicurezza addosso. “Non sapevo cosa fare e ho iniziato il tirocinio presso lo studio di mio padre”, continua. Rispetto ai suoi coetanei di Sortino, però, aveva viaggiato parecchio e iniziato a imparare l’inglese all’età di 9 anni. Nove anni? Mi sento in dovere di interromperlo. “L’inglese iniziai a impararlo ascoltando la musica”, ecco che torna al passato remoto. “Poi a 14 e 15 anni feci delle scuole estive in Inghilterra e mentre i miei coetanei piangevano perché volevano tornare, io piangevo perché non me ne volevo andare. Sapevo già che mi sarei trasferito all’estero, ma, da allora, non avevo mai avuto il coraggio di fare la valigia e andare via”, continua.
Quel coraggio arriva il 24 Luglio del 2013 e porta Giovanni direttamente nella città di Utrecht, “perfetta” come la definisce lui. Al centro d’Europa, ben collegata, con un’università di eccellente livello e una vita notturna da fare invidia alla vicina Amsterdam. “Ancora adesso mi capita di fermarmi in angoli visti e rivisti e di fotografarli. Non la cambierei per niente al mondo”, sorseggia di nuovo. “Anni prima di partire avevo compilato un file excel elencando tutti i pro e i contro di diverse città d’Europa. Utrecht aveva vinto su tutte e al momento di fare il biglietto di sola andata non ho avuto il minimo dubbio”.
Il prosieguo è altrettanto noto: l’ambizione di iniziare un master per insegnare all’università, qualche spicciolo da parte e una determinazione nel cercare lavoro che, spesso, lascia il posto alla fortuna. “Quando arrivi in un paese, solo, costretto a lasciare la terra più bella del mondo, è il modo in cui ti relazioni con le persone che ti aiuta”, mi spiega. “Ho capito che ho un valore aggiunto nel rapporto con gli altri quando, conoscendo persone nei bar o nei locali, quelle stesse persone mi permettevano poi di trovare casa o lavoro”. E di lavori, come molti expat, ne ha dovuti cambiare tanti: lavapiatti in tre ristoranti, magazziniere, postino e operaio in fabbrica – impiego quest’ultimo che ha dato conferma alle sue ideologia di estrema sinistra. “Quel primo anno mi è servito tantissimo”, racconta, “perché mi ha fatto capire in cosa risiede il mio valore e ha rafforzato le mie idee”, spiega mentre ordina due bicchieri di Soave.
La contentezza nelle sue parole è esilarante se si pensa che, dopo tanti sforzi e una tesi di master che ha valso la collaborazione di Theo Van Bowen – special rapporteur all’ONU, il fatidico dottorato per l’insegnamento non è poi arrivato. “La competizione era tanta e, soprattutto, dopo aver preso il master non potevo permettermi un altro tirocinio non pagato, a differenza dei miei colleghi, più giovani di qualche anno e appena usciti dal bachelor”, mi spiega. “E poi, se non sarò io a insegnare, lo farà qualcun altro”, afferma con decisione. Alla laurea ad Utrecht seguono allora un lavoro come traduttore freelance, prima, e un contratto a tempo indeterminato in customer service, poi. Per un attimo mi cruccio, mentre penso alla frustrazione e all’infelicità di tanti che, anche all’estero, lottano per ottenere una posizione di prestigio.
Mi spiega allora che in questi anni ha capito che, “se in media campiamo 70 anni”, crede sia meglio passare il proprio tempo libero a viaggiare, scoprire nuove librerie o cafè, leggere e ascoltare musica, piuttosto che ostinarsi nella ricerca del lavoro dei sogni. “Vedi, c’è chi pensa al prestigio professionale come la fonte della felicità”, ribatte. “Beh, non sono d’accordo. Il lavoro è il mezzo e non è il fine. Siamo cresciuti in una cultura e in delle famiglie che ci hanno insegnato che l’ambizione e gli obiettivi professionali sono lo scopo ultimo delle nostre esistenze”, sorride. “Finché si ha un lavoro dignitoso e un buono stipendio, non credo ci sia nulla di cui ci si possa lamentare, indipendentemente dalla propria intellettualità o materia di studi. E adesso sono felice e anche al paese lo hanno capito”, conclude.
Quando usciamo da li mi sento un po’ stordita. Mi dico tra me e me che noi Siciliani siamo proprio speciali e lo ringrazio. Mi piacerebbe pensarla come lui.