L’IDFA è un’occasione imperdibile, un punto di osservazione magico verso un mondo speciale, quello dei documentari, che svela i suoi segreti anche ai non esperti del settore.

Alle dieci di ieri mattina sono entrata al De Jaren Café, dove avevo appuntamento con Antonio Tibaldi, regista italiano in gara quest’anno con Thy father’s chair. Tibaldi, australiano di nascita (classe 1961), ma italiano di sangue nonché di adozione, ha girato per la Rai diversi documentari su tematiche sociali forti e alcuni lungometraggi che hanno vinto premi internazionali importanti, come ‘Correre contro’ (1995), vincitore del Prix Italia nel 1997 e del San Jose film festival nel 1998, e ‘Lupo Mannaro’ (2001), trasposizione cinematografica dell’omonimo romanzo di Carlo Lucarelli. I suoi lavori sono stati presentati ai maggiori festival internazionali, tra cui proprio Amsterdam, Sundance a Montreal.

thy-Thy father’s chair è un viaggio intimo e privato nella vita di due gemelli ebrei ortodossi, Abraham e Shagra, che conducono un’esistenza quasi in esilio nella loro casa di famiglia, a Brooklyn. Dopo la morte dei genitori, hanno iniziato ad accumulare qualsiasi cosa senza buttare più niente, ritrovandosi a vivere in un bazar di vecchi oggetti e spazzatura, nascondendo tutto nel buio delle pesanti tende. Quando l’inquilino del piano di sopra decide di non pagare più l’affitto a meno che non decidano di pulire completamente il loro appartamento, si da il via a una traumatica invasione della loro storia personale da parte di un’impresa di pulizie, in cui saranno costretti a fare i conti con i propri ricordi, la loro religione e… la sedia del padre defunto.

Il De Jaren è il cuore pulsante del festival, in senso fisico, per la sua posizione, e in senso metaforico, perché dall’ora della colazione raccoglie chiunque passi per l’IDFA. E si sa, la colazione è il pasto più importante della giornata. Antonio, che mi ha raccomandato di dargli del tu, mi trova nell’angolo dove lo aspettavo e mi dice che c’è anche Àlex e che parla benissimo italiano. Àlex è Àlex Lora, regista spagnolo con cui ha girato il documentario che presentano quest’anno nella categoria dei lungometraggi e con cui collabora da diverso tempo. Mi siedo al loro tavolo. Mi sento accolta. Bevo un cappuccino.

Come vi siete conosciuti tu e Àlex?

Antonio Tibaldi: Ci siamo conosciuti a New York, dove Alex è stato un mio studente (al City College of New York, di cui Antonio è co-direttore del MFA in Film, ndr). Dopo poche settimane che era nella mia classe ha presentato dei lavori e ridendo ha fatto una battuta: “I want to be in business with you”. E poi è successo davvero.

E l’idea per questo nuovo lavoro come è arrivata?

AT: È nato così: c’era una signora che ha due società di cleaning a Brooklyn, che era amica di un’amica di un’amica, la quale mi ha detto: “Ha visto dei tuoi lavori e vorrebbe produrre un tuo film”. Allora sono andato a mangiare con lei e in realtà è venuto fuori che non voleva produrre un mio film, ma voleva un infomercial per le sue società. Quindi ho declinato l’offerta perché non era un lavoro per me.

Lei sei mesi dopo mi ha mandato un sms, con tre fotografie, che diceva “We found the house”. Io allora l’ho chiamata e le ho detto che non volevo farlo, ma lei ha insistito e mi ha detto “vai a vedere la casa”. Così ho preso la metro fino a Brooklyn, e insieme a Hanan (altro protagonista del documentario, ndr) sono arrivato davanti alla casa, dove ho incontrato subito uno dei due gemelli, Shagra, e appena l’ho visto mi è venuta in mente quest’idea demenziale: lascia perdere l’infomercial, questo è un film. Un film basato poi su un principio di masochismo, perché sembrava quasi impossibile realizzarlo: la casa era talmente piena di roba che non si riusciva a muoversi.

Come avete fatto tecnicamente?

AT: Abbiamo dovuto usare una macchina fotografica-video che è molto molto sensibile, con la quale puoi girare anche al buio, perché lì non c’era praticamente luce, con le finestre praticamente tappate da tutte le cose che c’erano. E poi il grande problema era lo spazio fisico per muoversi con le macchine. Lì ho davvero pensato che fosse impossibile, anche se forse è proprio la ragione principale per cui ho deciso di farlo. E invece poi…

Le prime reazioni dei due gemelli davanti a questa invasione quali sono state?

AT: Loro non volevano pulire la casa, figuriamoci farci un film. Non volevano niente di tutto ciò. Alla fine hanno dovuto in qualche modo accettare la pulizia e tutto il resto, innanzitutto perché l’inquilino aveva minacciato di smettere di pagare. Dopo si è creato invece uno strano rapporto, perché sono quasi diventati dipendenti da tutto l’apparato che è entrato in casa loro; è come se fossero rimasti dei bambini mai cresciuti per tanti versi, e finalmente avevano qualcuno che gli mostrava come fare le cose. “Come si fa questo?”, chiedevano sia a noi che a chi puliva. È come se avessero ritrovato una figura paterna, una guida. Per cui da un inizio in cui volevano che stessimo alla larga siamo arrivati a “Ma quand’è che torni? Quand’è che venite? Giochiamo a scacchi?”. Si creano questi rapporti che colmano un vuoto.

Àlex tu che mi dici su questo lavoro?

Àlex Lora: Per me il lavoro è stato più di post-produzione. Sapevo che Antonio andava a girare là, che era una cosa interessante, così mi ha chiesto cosa ne pensassi e di dargli una mano per lavorarci insieme. La prima sfida è stata trovare la storia, perché all’inizio pensavamo che tutto si incentrasse sul pulire una casa, invece poi ci siamo resi conto che era tutto sui personaggi. È stato divertente quando abbiamo capito che cosa volevamo e potevamo fare.

Entrambi avete un rapporto particolare con l’Italia.

AT: Be’ io sono metà italiano, mio padre è italiano. Sono cresciuto parlando sempre l’italiano a casa e tornando in estate per visitare i nonni. A partire dai 18 anni è il paese che riconosco come il mio, cioè quando ho deciso di andare a studiare e a vivere in Italia. Mi sono iscritto a Firenze in lettere e filosofia, e prima di finire, anche se poi non ho mai finito, ho fatto una scuola di cinema a Milano, l’Albedo Cinematografica, che adesso non esiste più e che era un’ottima scuola. E poi ho iniziato a fare qualche lavoro come assistente regista per la Rai. Dopodiché sono andato via, negli Stati Uniti, con una borsa di studio, ma quando ho finito il mio master in California ho incontrato un produttore italiano, Leo Pescarolo, che ha prodotto film e registi importantissimi, come Fellini, e con il quale poi ho fatto il mio primo film. Quindi di fatto i miei rapporti con l’Italia non si interrompono mai. Anche se è un rapporto di amore/odio, perché trovo sia un paese molto bello da guardare, ma per me è impossibile viverci. O meglio, sarebbe possibilissimo viverci, ma solo se ti cerchi delle alternative e non tutti possono farlo. C’è qualcosa dell’Italia che mi dà enormemente fastidio, che è questa idea di fare le cose solo se conviene in qualche modo. E poi il “non si fa così“, come se ci fosse una legge non scritta. È difficile vivere in Italia senza fare i conti con queste due cose, e se ci fai i conti sei abbastanza limitato. Però adoro l’Italia! E da fuori la posso guardare meglio.

ÀL: A me piace tantissimo l’Italia! Vorrei poterci andare più spesso. Mio padre lavorava per una ditta tipografica e mi portava sempre dei fumetti in italiano, ma all’epoca non lo capivo; allora quando è arrivato il tempo di partire per l’Erasmus ho deciso di venire in Italia (a Bologna, ndr), anche per imparare la lingua, visitare il paese. Sono andato là e mi è piaciuto. E poi l’Italia è molto simile alla mia Spagna, quindi tutte le volte che vengo mi sento a casa.

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