“Prendi l’Inghilterra, trattala male,
lascia che ti aspetti per ore.
Non farti vivo e quando la chiami
fallo come fosse un favore.
Fa sentire che è poco importante,
dosa bene dazi doganali e crudeltà.
Cerca di essere un tenero amante
ma fuori dalla UE nessuna pietà.
E allora si vedrai che t’amerà,
chi è meno amato più amore ti dà.
E allora si vedrai che t’amerà
chi meno ama è più forte si sa.”
(Fonte: Gli Eurocrati)
Così recitava il famoso pezzo di Marco Ferradini. O quasi. Ed effettivamente, se si applica il (sempre attualissimo) teorema di Ferradini alla love story tra il Regno Unito e l’Europa all’indomani del disastroso risultato del referendum che ha sancito l’uscita dell’isola dall’Unione Europea, è facile trovarne le similitudini: lei, l’Europa, l’eterna condannata ad essere disprezzata, non voluta e bistrattata, lui, Il Regno Unito, il crudele e scostante amante che ama solo a metà. Che i ruoli ora si stiano per invertire?
Una cosa è certa: non c’è mai stato un vero grande amore tra Gran Bretagna ed Europa. O meglio, il regno di Sua Maestà conta una lunga storia di euroscetticismo fin dai lontani anni 70, quando entrò, in punta di piedi, a far parte dell’allora CEE (comunità economica europea). Da allora la seconda potenza europea ha sempre goduto di uno status particolare in seno all’Unione Europea, avendo costantemente beneficiato di diversi opt-outs su determinate politiche, compresa l’adozione della moneta unica. Sembrerebbe che in effetti non vi sia mai stato, tra gli inglesi, un forte sentimento europeo, quello stesso sentimento che caratterizza la nostra generazione erasmus e ci identifica non più solo come italiani, francesi e tedeschi ma anche e soprattutto come cittadini europei, cittadini di uno spazio di pace e stabilità senza più confini interni e dove le diverse culture nazionali non sono più una forza divisiva ma unificante.
Serviva, forse, essere completamente fuori da questa Unione Europea per capirne il valore? Probabilmente sì. Basta infatti pensare alle immediati reazioni e conseguenze che questi successivi quattro giorni post Brexit hanno scatenato non solo nei mercati (con uno storico crollo della sterlina) ma soprattutto nei cittadini britannici. Se da una parte vanno raccogliendosi sempre più Bregretters, (coloro che, alla luce delle subitanee conseguenze della loro scelta, sono andati a formare un folto gruppo di pentiti), i Remainer, dalla loro, hanno lanciato sul sito del Parlamento inglese di una petizione per un nuovo referendum Brexit che in meno di tre giorni ha già raccolto 3 milioni di firme. Da non sottovalutare, inoltre, le conseguenze più politiche che la Brexit sta provocando: mentre la Scozia, regione in cui il Remain ha prevalso sul Leave con il 68%, accenna già ad un possibile secondo referendum d’indipendenza dal Regno Unito, le dimissioni del premier Cameron rendono la possibilità di elezioni anticipate a settembre una realtà sempre più concreta cosi come la mancanza di una strategia e di un vero piano post Brexit da parte dei suoi principali promotori quali Farage e Johnson. Tutti fattori che contribuiscono a creare ed acuire un quadro politico di forte incertezza ed instabilità.
Tuttavia, i veri sconfitti da questo referendum sono i giovani inglesi, veri sostenitori della permanenza del regno Unito all’Unione Europea ma che più di tutti porteranno il peso della Brexit. Con il 75% delle preferenze, la popolazione di età tra i 18 e 24 anni ha dato una risonante preferenza all’Unione Europea, seguita da il 54 per cento delle persone con un’età compresa tra i 25 e i 49 anni. Sono coloro che vivranno più a lungo le conseguenze del voto per una media di 69 anni a fronte dei 16 degli ultra 65enni, come dimostra il grafico qui sotto.
Un vero tradimento generazionale che fa scoppiare e riaprire uno scontro tra la nuova generazione dei Millenials e quelli dei loro padri o addirittura nonni, che hanno deciso di negare ai loro figli o nipoti il diritto e la bellezza di vivere il progetto europeo, di vivere, studiare e lavorare da un paese all’altro, di entrare in contatto e sperimentare la cultura di ogni piccolo “tassello” che forma il puzzle europeo.
Su Twitter come su altri social media, i giovani accusano i loro padri di aver rubato loro il futuro, come recita qui uno dei tanti ragazzi che si sono espressi in questi giorni:
“noi [, la nuova generazione,] non conosceremo mai il vero peso delle opportunità, amicizie, unioni ed esperienze che ci saranno negate. La libertà di movimento ci è stata tolta dai nostri genitori, zii, e nonni con un colpo basso inflitto ad una generazione che già annegava nei debiti dei suoi predecessori.”
E ancora un altro giovane:
“Una generazione a cui è stato dato tutto: istruzione gratuita, pensioni d’oro, mobilità sociale, ha votato oggi per strappare il futuro della mia generazione”.
C’è un altro aspetta da considerare: quello dell’affluenza nelle diverse fasce d’età. Di fatto, solo il 36% della fascia 18-24 si è presentato ai seggi, contro un 83% degli over 65. Questi giovani allora non sono solo vittime delle più vecchie generazioni ma sono prima di tutto vittime di se stessi e del loro scarso coinvolgimento alla vita politica del proprio paese. E’ una tendenza questa, che è sempre più comune a tutti i giovani europei. Eppure, nonostante ciò, questo non può che configurarsi come una spinta, una chiamata ai giovani a riappropriarsi e preoccuparsi del loro futuro, a riscoprirsi cittadini europei e cosmopoliti, a mobilitarsi e partecipare alla vita politica, a progettare ancora di studiare in un altro paese, a guardare lontano e a non lasciar più che la paura di altri soffochi i propri sogni. Perché il futuro è di chi sa sognare, in grande.
Marzia Buonaroti, Bruxelles